Lectio bibliche su Davide Re, sacerdote, profeta, peccatore e credente: LACRIME MIE, NELL’OTRE TUO, RACCOGLI!

E’ un testo di meditazioni sulla storia del Re Davide scritto da Sua Eccellenza, mons. GianCarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso.

E’ un invito a sentire come Dio sta vicino ai suoi figli e li chiama a credere in Lui, a fidarsi del Suo amore e a ritrovare nella Sua misericordia il senso della vita, nei momenti della prova che diventano veri sentieri di preghiera.

 

Narrativa come “Teologia Prima”

di Don Leonardo Lepore

Direttore Istituto Superiore Scienze Religiose “Redemptor Hominis”

Più che una vera e propria introduzione alla lettura dei racconti relativi alla vicenda di Davide, così come ci vengono offerti dalla narrativa biblica e ai quali questo testo elaborato da s.e. mons. Giancarlo Bregantini invita secondo le norme della lectio divina, questa introduzione vuole essere un invito ad attingere (e a non sottovalutare mai) alle sorgenti sotterranee del racconto, della narrativa intesa come realtà viva, palpitante, che non smette di insegnare la vita e di indicarla in direzione di Dio. Vi è tutta una serie di studi che nell’ultimo decennio va mettendo in primo piano l’interesse per il racconto, quale forma prima della teologia, spontanea, semplice, fontale per freschezza e limpidità (e non meno per semplicità). Il modo più antico con cui Dio è venuto incontro all’uomo è quello del racconto. Prima che il pensare teologante si fondasse sulla “fatica del concetto”, Dio abitava in una storia condivisa, celebrata, trasmessa con tutte le sue luci e le sue ombre, capace di dire il mistero e in pari tempo di nasconderlo, di esaurirlo e di aprirlo ad ulteriori sviluppi.

Forse questa è l’epoca che più ha dimenticato i racconti e l’andatura dell’uomo contemporaneo appare claudicante proprio perché nessuno ci incanta più con le sue storie. Siamo orfani non tanto perché sono venuti meno i padri, quanto perché sono venuti meno i racconti e più nessuna parola ha il potere di meravigliarci.

C’è un episodio nei Racconti della Kolyma dello scrittore russo Varlan Šalamov — il quale fu testimone degli orrori dei campi di lavoro in Russia durante la dittatura sovietica — che spiega plasticamente l’importanza delle storie e che offre l’occasione per riflettere sul loro valore. Nei lager staliniani trovarono la morte e videro l’orrore una quantità difficilmente calcolabile di ladri, spioni, oppositori politici, pensatori, gente di grande intelligenza, come anche bari, prostitute, corrotti. Un affresco di un mondo abitato da gente raffinatissima e gente di estrazione assai meschina. Il meglio e il peggio. Ora, la vicenda narrata è relativa all’esperienza di un intellettuale, di nome Platonov, che si trova nel peggiore settore della Kolyma, il tristemente famoso campo di Džanchara, celebre per la massiccia presenza di delinquenti e di gente malavitosa. Questo intellettuale si salva dalla cattiveria narrando storie, a sera, dopo una lunga giornata di lavori forzati. Esse aiutano a fermare la rabbia, il risentimento di chi vive la prigionia; in pari tempo, invitano a sognare, ad evadere, a costruire un orizzonte di libertà, fantastico, metafisico, dimenticando le ragioni del male, il freddo, il buio, la solitudine. Rappresentano la speranza per chi incattivisce nella cattiveria peggiore. Dalla bocca stessa di Platonov, così viene sintetizzata la sua esperienza nel paese “del ghiaccio eterno”: «È stata dura solo all’inizio, i primi due o tre mesi. Da quelle parti ci sono solo ladri. Io ero l’unico…istruito. Gli raccontavo delle storie, “stampavo romanzi”, come dicono i malavitosi, di sera raccontavo le storie di Dumas, di Conan Doyle, Wallace. In cambio mi davano da mangiare, mi vestivano e lavoravo poco».

Questo intellettuale trova una sua salvezza grazie alle storie che riesce a trasmettere. “I cattivi” ripagano con un gesto di generosità l’uomo che li fa sognare, che li fa volare con la forza di una narrativa semplice, che a sera, arriva come una carezza consolatoria nel paese della morte sicura. Il titolo che Šalamov assegna alla vicenda di Platonov è “L’incantatore di serpenti”. Chi racconta storie riesce a placare la parte brutale dell’uomo. Il serpente, biblicamente parlando, è all’origine del male. Fu all’inizio quando accadde il peccato e quando la morte iniziò ad abitare la vicenda umana. A sera, dopo le fatiche del giorno, anche i più cattivi tra gli uomini vogliono fermarsi ad ascoltare vicende costruite dalla sapienza dell’uomo; vogliono mettere a tacere la parte ferina, malvagia, cattiva, per disporre il cuore a valori profondi, che hanno la forza di restituire la speranza, e con questa la voglia di continuare a vivere. Negli Apophtegmata patrum, ove leggiamo la vita e i detti dei Padri del deserto, sorprende leggere che per gli anacoreti e gli eremiti dei primi secoli la Parola di Dio era intesa in maniera decisamente prossima all’immagine che abbiamo usata: essa è quella parola che consegna il cuore a Dio e mette in fuga il serpente che attenta alla sua integrità e alla sua compostezza. Celebre è la risposta che venne data a quel giovane che dichiarò la sua difficoltà a meditare le Scritture dal momento che non ne comprendeva le parole. «Basta che tu legga!», gli fu risposto «Ho udito che il padre Poemen e molti padri dissero questa parola: “L’incantatore di serpenti non conosce il valore delle parole che pronuncia, ma la bestia ascolta e lo conosce e si sottomette e si umilia. Così è di noi: se anche ignoriamo il senso delle parole che diciamo, i demoni ascoltano e si allontanano con terrore”».

Veniamo al senso di questo libro di meditazioni su Davide. Il testo chiede ai suoi lettori (a coloro che si dicono seguaci di Gesù), di deporre, a sera, le armi della stanchezza, della fatica e di lasciare entrare nel proprio vissuto la vicenda di Davide, meditandola in un contesto che si accompagna alle luci del cenacolo, ossia in un contesto fatto di ascolto ecclesiale e comunitario. La vita di Davide — per come ci viene offerta dalla Bibbia, esposta nei libri di 1-2 Samuele; 1 Re e 1 Cronache —, non va letta una sola volta, ma va ascoltata, riascoltata, vissuta, partecipata fin nelle sue latebre più nascoste e più significative.

Rivivere la scelta della chiamata di Davide, dove lo sguardo di Dio non segue l’apparenza, come lo sguardo dell’uomo, ma “guarda al cuore” (cfr. 1 Sam 16,7), significa riappropriarsi del senso autentico della propria chiamata per ritornare a scoprirsi destinatari della stima di Dio, del suo amore viscerale; oppure il tentativo di placare lo “spirito cattivo che turba” il cuore di Saul, vittima della competizione e della gelosia (cfr. 1 Sam 16,15), vuol dire far entrare la pace in momenti in cui ci si scopre frammentati, stanchi, delusi, offesi e umiliati dalla vita e dal ritmo insostenibile con cui essa maltratta; ascoltare Davide che suona la cetra (cfr. 1 Sam 16,23), che scrive preghiere (cfr. il libro dei Salmi), ove grida a Dio il suo dolore e la sua felicità, dove si sente abbandonato e sostenuto, dove lotta con Dio e dove trova in Dio il suo rifugio, invita lo spirito a perseverare in una preghiera autentica, senza formule, vera in se stessa, dove il cuore dice quello che vive, senza veli, senza infingimenti; la lotta contro il gigante Golia (cfr. 1 Sam 17), il mostro armato immagine della sicurezza prepotente, aiuta ad essere fiduciosi anche di fronte alla potenza organizzata del male, senza eccessivi timori, senza disperare; allo stesso modo si possono considerare le battaglie di Davide (cfr. 2 Sam 2,8-32; 8,1-14), la sua conquista del regno (cfr. 2 Sam 2,1-7), il suo lungo governo, le lotte intestine della sua famiglia (cf. la vicenda dell’incesto di Ammon, in 2 Sam 13), l’odio tra i suoi figli (2 Sam 13-15), le speranza, le attese, i lutti, la fuga a capo coperto sull’erta degli ulivi…(2 Sam 15,13-37), come un affresco che mette in scena le mille facce di quel diamante chiamato vita, vita dell’uomo. Ciò che balugina nei testi e che chiede di essere ascoltato è un mondo di sentimenti comuni alla vita di ogni uomo, alla vita di tutti, dove mors et vita duello, ove costantemente la vita e la morte si affrontano in un duello rischioso.

Infine, il peccato, che giunge per ultimo ma sempre prima del perdono. Che arriva nella vita di Davide dopo che egli ha combattuto le sue battaglie, dopo che egli ha vinto le sue guerre, e sconfitto i suoi nemici; dopo che il regno è consolidato e dopo che il benessere ha abitato i confini del suo regno. Il peccato che arriva dopo la conquista di Gerusalemme e prima della costruzione del tempio. Il peccato che arriva di sera, sulla terrazza, guardando la Gerusalemme delle sue lotte, delle sue fatiche, che entra di notte nella camera del re e che gli fa capire che il regno più difficile da consegnare a Dio è quello di un cuore santo, puro, purificato dopo aver vissuto intensamente, dopo aver sbagliato ed aver gridato a Dio l’assurdità della propria colpa (cfr. 2 Sam 11; Sal 51). Il cuore della purezza quello che ritorna a Dio dopo quarant’anni di regno. Finalmente perdonato.

Quel cuore — il suo come il nostro — che attende di essere nutrito, dalle storie che Dio ci racconta e nelle quali non smette di rivelarsi.

 

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