È stata organizzata, nell’Arcidiocesi di Campobasso-Boiano, una giornata di studio vissuta con grande intensità, con l’obiettivo di approfondire la vita e l’opera di Santa Teresa Benedetta della Croce, proclamata compatrona d’Europa da Papa Giovanni Paolo II. L’evento ha visto l’intervento iniziale di S.E. Mons. Biagio Colaianni, Arcivescovo Metropolita di Campobasso-Boiano, e della Dott.ssa Maria Concetta Chimisso, Dirigente dell’Ufficio Scolastico Regionale per il Molise, che hanno rivolto i saluti introduttivi.
Relatore d’eccellenza, il Prof. Michele D’Ambra, docente di filosofia e membro del direttivo dell’Associazione Italiana Edith Stein. Ha presentato la sua relazione dal titolo “Come un bimbo tra le braccia della madre. Amore, libertà e abbandono: l’esistenza di Edith Stein”, esplorando i temi più profondi della spiritualità e della vita di Edith Stein. L’incontro è stato moderato dalla Prof.ssa Giuseppina Di Lembo, Direttrice dell’Ufficio Scuola dell’Arcidiocesi di Campobasso.
Un evento che ha suscitato grande interesse e ha offerto spunti di riflessione sulla figura straordinaria di Edith Stein.
Il testo che segue rappresenta una riflessione e una narrazione incentrata sulla figura di Edith Stein, una donna dalle molteplici sfaccettature: filosofa, mistica, convertita al cattolicesimo, monaca carmelitana e, infine, martire della Shoah. In questo intervento, il professore esplora gli eventi che hanno segnato la vita di Edith Stein, mettendo in evidenza i suoi incontri fondamentali, i suoi legami familiari e la sua ricerca spirituale. Questi temi sono trattati con attenzione particolare alla relazione che Edith aveva con la madre e al conflitto interno derivato dalla sua conversione al cristianesimo.
La relazione del Prof. Michele D’Ambra, docente di filosofia e membro del direttivo dell’Associazione Italiana Edith Stein
“EDITH STEIN: UN CAMMINO DI LIBERTÀ, AMORE E ABBANDONO”
Voglio iniziare questo incontro con un pensiero che mi sta particolarmente a cuore. Oggi parlerò di una figura che mi ha accompagnato nel corso degli anni, una donna straordinaria: Edith Stein. La sua vita, le sue riflessioni, le sue scelte hanno segnato profondamente il mio percorso di ricerca e di fede. Quando parlo di Edith Stein, non posso fare a meno di richiamare il tema delle donne nella Chiesa e nella storia europea, un tema che quest’anno è particolarmente significativo per la Chiesa, che celebra l’importanza delle donne. Edith Stein incarna questo tema in modo splendido.
Ho avuto il privilegio di studiare i suoi scritti per molti anni, e per me è impossibile parlare della sua vita senza sottolineare quanto le sue esperienze personali siano intrecciate con il suo pensiero. Edith è una donna che ha vissuto profondamente, che ha cercato incessantemente Dio, ma che, come tutti noi, ha dovuto confrontarsi con la sofferenza, con l’abbandono, con il rapporto con la sua famiglia. Voglio condividere con voi alcuni momenti che mi hanno colpito particolarmente.
Edith, come ci racconta nelle sue memorie, ha vissuto un momento particolarmente doloroso con sua madre. In uno dei passaggi più significativi della sua vita, la madre le chiede: “Ma perché hai conosciuto Cristo? Perché Lui si è fatto Dio?”. Questo interrogativo, che esprime incredulità e dolore, segna un punto di rottura. È la domanda fondamentale che Edith si troverà a fronteggiare: cosa rende originale il cristianesimo? Edith risponde a questa domanda in modo chiaro, rivelando una delle caratteristiche più sorprendenti del cristianesimo: è il Dio che si fa carne. Non è una religione come le altre, non è un tentativo umano di raggiungere Dio, ma è Dio stesso che si rivela all’uomo.
Questa rivelazione è incomprensibile per sua madre. Come potrebbe una persona intelligente come Edith, che aveva studiato con alcuni dei più grandi filosofi del suo tempo, scegliere di darsi completamente a un mistero che per la madre è assolutamente impensabile? La madre non poteva capire, ma Edith aveva già compiuto un incontro decisivo: quello con il Cristo che si fa carne.
Mi piace immaginare la scena che una regista ha voluto raccontare nel film La settima stanza, un film che mi ha molto colpito. In una delle scene più potenti, Edith si trova tra le braccia della madre. La madre, ormai consapevole della scelta della figlia, la tiene tra le sue braccia, abbandonandola completamente. Questa scena mi ricorda l’immagine di Pietà di Michelangelo, un abbandono che rappresenta il punto di non ritorno, il momento in cui Edith si distacca dalla madre, ma al contempo trova una forma di unità profonda, quasi una trasfigurazione.
Un altro aspetto importante della sua vita è il legame che Edith aveva con i suoi fratelli e sorelle. La sorella più vicina a lei, Rosa, diventerà anch’essa cattolica e morirà insieme a Edith il 9 agosto 1942. Rosa è l’unica che rimane a casa a prendersi cura della madre, mentre Edith decide di entrare nel monastero. Questo è un altro momento cruciale, perché segna il distacco definitivo da una vita familiare che l’ha plasmata, ma che non le impedisce di abbracciare una nuova vocazione.
Dopo gli studi, Edith entra in contatto con una filosofia che cambierà il suo approccio alla vita: la fenomenologia. La sua formazione iniziale era legata agli studi classici, ma ben presto si avvicinò alla psicologia, in particolare alla psicologia sperimentale, che all’epoca era dominata dal comportamentismo. Tuttavia, Edith si rese conto che questo approccio non spiegava l’essenza dell’uomo, perché non dava spazio alla libertà. La psicologia sperimentale, basata sul controllo del comportamento umano attraverso esperimenti, non riconosceva la libertà, che per Edith è l’essenza della persona umana. Questa intuizione la spinse ad abbandonare la psicologia tradizionale per abbracciare un’altra visione, quella della fenomenologia, che metteva al centro l’esperienza diretta della realtà.
In questo contesto, Edith scoprì che l’essenza dell’essere umano non risiede solo nel corpo o nella psiche, ma anche nello spirito. La psiche può essere istintiva, ma lo spirito consente all’uomo di fare scelte libere, di agire per amore, di andare oltre gli impulsi immediati. Per Edith, l’uomo è libero, ma questa libertà trova la sua origine nello spirito.
Un altro tema che mi ha sempre affascinato è l’idea che Edith Stein sviluppa riguardo all’empatia. L’empatia, come la intende Edith, non è semplicemente un “entrare” nel vissuto dell’altro, ma è una comprensione profonda e libera del dolore e delle sofferenze dell’altro. L’empatia è un atto di conoscenza, non di fusione. Comprendere l’altro, per Edith, non significa diventare l’altro, ma riuscire a comprendere ciò che l’altro sta vivendo sulla base della nostra esperienza.
Questi concetti, che Edith sviluppa nel suo lavoro, ci portano alla questione fondamentale della relazione tra l’individuo e la comunità. L’uomo, per Edith, non è mai solo; la sua vita è intrinsecamente relazionale. La comunità, per quanto possa sembrare un vincolo, è ciò che dà all’individuo il significato e la pienezza. Anche se ciascuno di noi è unico e irripetibile, siamo chiamati a vivere in relazione, ad aprirci agli altri. Edith stessa lo esprime molto chiaramente: non possiamo vivere senza gli altri, perché la nostra umanità si sviluppa solo attraverso il dialogo, l’incontro, la condivisione.
Nel suo lavoro educativo, Edith ritiene che l’educatore abbia il compito di formare l’individuo in una certa forma, ma questa forma non è arbitraria: è il modello di Cristo. Per Edith, Gesù Cristo è il vero modello di umanità. L’educazione, dunque, è un atto che non si limita a trasmettere conoscenze, ma deve sempre mirare a formare l’uomo secondo il modello di Cristo. L’educatore, in definitiva, è solo un seminatore, mentre colui che educa veramente è Dio.
Questa riflessione mi ha colpito profondamente e credo che possa risuonare come un messaggio potente anche per noi oggi. Non si tratta solo di insegnare, ma di trasmettere quella libertà, quella apertura all’amore, che caratterizza l’essere umano nella sua essenza più profonda. Noi siamo solo strumenti umili, incapaci di fare altro che indicare la strada, senza poter intervenire direttamente. Il nostro compito è solo quello di mostrare la via.
Nel 1933, un anno tragico, arriva un cambiamento fondamentale per Edith. Hitler, il 7 aprile di quell’anno, pubblica una legge che costringe tutti i dipendenti statali di razza ebrea a lasciare il loro posto di lavoro. Edith è costretta a lasciare l’insegnamento, ma questo segna anche la realizzazione di un suo desiderio profondo: entrare nel Carmelo. Il 14 ottobre, vigilia della festa di Santa Teresa di Gesù Bambino, fondatrice del Carmelo, Edith fa il suo ingresso nel monastero.
Nonostante la sua nuova vita nel Carmelo, Edith continua a scrivere e a studiare, grazie a una speciale dispensa. Scriverà due opere fondamentali: Essere finito, essere eterno e Scienza Crucis, che ho già menzionato. Ma nel Carmelo emerge con forza un tema: l’abbandono. Edith si chiede: cosa c’entra l’amore e la libertà con l’abbandono?
Per lei, la libertà non è solo autodeterminazione. Al contrario, è scegliere di possedere se stessi così tanto da potersi abbandonare completamente nelle mani di qualcun altro, di chi ci sostiene quando siamo incapaci di farlo da soli. È come un bambino che si abbandona nelle braccia della madre: non è stupido, ma si fida completamente, perché sa che quelle braccia reggeranno la sua vita. Così, l’abbandono è la forma più alta di libertà: non una fuga da se stessi, ma una resa consapevole e fiduciosa a chi ci ama.
La libertà, quindi, non è la possibilità di autodeterminarsi, nemmeno nella scelta della morte. La morte non è una scelta libera, ma una negazione della vita, qualcosa di contrario alla nostra natura. La vita ci è stata data, non è nostra, e non possiamo liberamente decidere di togliercela. La vera libertà sta nel scegliere il bene, non il male. Quando scegliamo il male, non siamo più liberi, ma schiavi degli istinti. La vera libertà è la forza di superare la sofferenza, di scegliere di fare il bene, anche quando sembra impossibile.
Nel monastero, Edith non ha rinunciato alla sua vita. Anzi, ha continuato a scrivere e a mantenere rapporti con tantissime persone, tra cui ex alunni e colleghi. Ha scritto circa mille lettere, che ho avuto il privilegio di tradurre tutte. La sua vita nel Carmelo non è stata un abbandono della realtà, ma un intenso lavoro di presenza spirituale, in dialogo con l’eterno.
Spesso mi chiedono perché una persona decida di entrare in un monastero. La risposta che mi viene in mente è che c’è una grande differenza tra solitudine e isolamento. L’isolamento è un’incapacità di comunicare, come accade per molti giovani oggi, che vivono in solitudine ma senza un vero dialogo. La solitudine di Edith Stein, invece, non era mai vuota. Era sempre in compagnia del Padre Eterno. Come diceva Santa Teresa, la nostra anima è come un castello con sette stanze concentriche, e la più interna di queste è quella dove abita il re. Il cammino dell’uomo è entrare in quella settima stanza per incontrare Dio.
La solitudine di Stein nel Carmelo non era il rifiuto della vita, ma una forma di presenza costante con l’Amato, il suo Amore, quello che le dava forza e scopo ogni giorno.
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Edith Stein (1891-1942) è stata una filosofa, religiosa e martire tedesca. Nata in una famiglia ebrea a Breslavia (oggi Wrocław, in Polonia), sin da giovane si distinse per il suo amore per lo studio e la ricerca. Dopo aver perso la fede in Dio durante l’adolescenza, si dedicò alla filosofia, diventando un’allieva del famoso Edmund Husserl, il padre della fenomenologia.
La svolta della sua vita arrivò quando, leggendo la biografia di Santa Teresa d’Avila, riscoprì la fede cristiana e si convertì al cattolicesimo nel 1922. Da allora, Edith iniziò a cercare un equilibrio tra il suo lavoro intellettuale e la sua fede, diventando un punto di riferimento per il dialogo tra fede e ragione.
Nel 1933, con l’ascesa al potere del nazismo, a causa delle sue origini ebraiche fu costretta a lasciare la carriera accademica. Entrò quindi nel Carmelo di Colonia e prese il nome di Suor Teresa Benedetta della Croce. Nonostante il suo rifugio in un convento nei Paesi Bassi, fu arrestata dai nazisti nel 1942 e deportata ad Auschwitz, dove morì nelle camere a gas.
Edith Stein è stata canonizzata da Papa Giovanni Paolo II nel 1998 ed è oggi venerata come Santa Teresa Benedetta della Croce. È considerata una delle patrone d’Europa per il suo esempio di fede, amore per la verità e coraggio di fronte al male.