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SAN GIOVANNI EREMITA DA TUFARA

SAN GIOVANNI EREMITA DA TUFARA

IL SANTO EREMITA GIOVANNI DA TUFARA (1084 – 1170)

L’eremita Giovanni è un santo nato, vissuto e morto nella Valle del Fortore. Inversamente proporzionale alla sua notorietà, limitata per molto tempo pressappoco alle sole popolazioni locali della zona in questione, ad emergere sempre più nel corso del tempo è l’importanza storica dell’opera che egli svolse in particolare come fondatore e primo priore del Monastero detto di Santa Maria del Gualdo Mazocca, che fiorì nel territorio di Foiano, ai confini tra il Sannio beneventano ed il Molise, fra la prima metà del secolo XII ed il principio del XVI.
 
Biografia essenziale
All’inizio del secondo millennio della nostra era, durante la dominazione dei Normanni (popolazioni che, nell’Alto Medioevo, abitavano l’Europa settentrionale ma che, successivamente giunsero a conquistare anche parte del sud Italia), lungo le due rive del Fortore erano disseminati tanti piccoli centri abitati, tra cui Foiano, Baselice, Castelvetere (oggi in provincia di Benevento), Tufara sulla sponda sinistra del fiume, poi altri sobborghi, oggi in gran parte abbandonati, su quella destra.
Erano tutti annotati nel cosiddetto Catalogo dei Baroni, un elenco di feudatari compilato durante la dominazione normanna e appartenevano tutti alla Contea di Civitate. Le colline dell’Alta Valfortore erano in quei secoli ricoperte da un immenso bosco secolare, il bosco di Mazzocca, chiamato così dal nome, probabilmente, del suo primo possidente, uno dei più estesi dell’Italia meridionale, ricco di selvaggina, di acqua e dal 1500 in poi anche di predoni, per cui – come scriveva lo storico ed avvocato partenopeo Lorenzo Giustiniani (secolo XVIII) nel suo Dizionario Geografico-Ragionato del Regno di Napoli – prima di attraversarlo i passanti erano soliti fare testamento. Ebbene, su queste colline, in questo bosco trascorse nel secolo XII ben 46 anni della sua vita “solitaria” il nostro santo eremita da Tufara.
Egli nacque, verso il 1084, nel piccolo centro dell’attuale Molise in provincia di Campobasso, dai coniugi Maynardo e Maria, persone pie e devote, come furono definite nel 1644 da uno studioso di Isernia, Giovan Vincenzo Ciarlanti. Due sono stati, fin dalla sua prima giovinezza, i motivi ispiratori della sua vita: l’atteggiamento di carità verso il prossimo, per cui si spogliò ben presto – a favore dei più bisognosi – di tutti i beni mobili che gli spettavano e la brama di servire il Signore nella più completa solitudine. Per questo lo si trova sempre alla continua ricerca di un luogo appartato, di un eremo. Anche dopo che, costretto da una moltitudine di devoti fedeli, avrebbe fondato una sua congregazione, egli continuò a vivere isolato in una sua “cella”.
Primo evento notevole della sua vita fu un viaggio a Parigi effettuato, come rivelano le fonti biografiche, in particolare una Legenda attribuita ad un certo Frate Giacomo, per <<brama di sapere>>. Parigi era del resto allora la mèta di tutti coloro che intendevano approfondire la loro formazione filosofico-teologica alla scuola dei più insigni maestri del tempo. Per Giovanni però la città francese dovette rappresentare un mondo, certamente, di cultura e di raffinatezza, ma anche di fallacia, di lusso e di cupidigia. Per cui tornò ben presto in Italia, assetato unicamente di Dio, desideroso di accostarsi a Lui come i tanti solitari (ad esempio, i santi Giovanni da Matera e Guglielmo da Vercelli) a lui contemporanei che vivevano in luoghi deserti, su aspri picchi, coperti di pelli di animali, nutrendosi di soli frutti selvatici alla maniera degli antichi profeti biblici. Perlustrò a tale scopo il Gargano e tutte le zone montuose circostanti. Insoddisfatto, tornò a casa. I genitori nel frattempo erano però deceduti.
In una simile condizione esistenziale, sempre più tormentato comunque da un’inquietudine spirituale che non gli dava tregua e anzi lo induceva ad appartarsi nel silenzio e nella solitudine, andò via e fu accolto nel piccolo monastero di Sant’Onofrio, sito nel bosco di Mazzocca, presumibilmente in territorio di San Giorgio la Molara (Benevento). In seguito dimorò tre anni (1104-1107) nella chiesa di San Silvestro, che sorgeva nella parte superiore dello stesso bosco, nei pressi del feudo di San Severo, un abitato oggi non più esistente, appartenente allora alla contea di Ariano e situato nel tenimento dell’attuale cittadina di San Marco dei Cavoti (Benevento). Infine, dal momento che desiderava ardentemente ad una vita completamente solitaria, si fece indicare – secondo la citata Legenda – da alcuni cacciatori un luogo ancora più nascosto e venne così condotto ad una rupe rocciosa, in un sito rimasto tuttora sconosciuto. Qui egli si costruì una piccola cella, nella quale sarebbe poi rimasto fino al 1153. In virtù della sua fama sempre più crescente, tuttavia, e della presenza per lui sempre più ingombrante di curiosi e devoti, si vide costretto a dare il suo assenso per la fondazione di un oratorio. Pertanto un aristocratico della zona, di nome Milone, fece costruire a sue spese una <<basilica>> (così recita ancora la Legenda di Frate Giacomo) in onore della Madre di Dio.
Sono di questo periodo e di quello immediatamente successivo numerosi prodigi attribuiti all’eremita e tramandati oralmente dalla tradizione. Intanto, allorché, verso il 1142, il feudo di San Severo (da non confondere con l’omonima cittadina pugliese in provincia di Foggia) passò dalla contea di Ariano a quella di Buonalbergo nella nuova circoscrizione territoriale, sottoposta al nuovo conte Roberto de Medania, questi, nella dolorosa circostanza della morte del figlio Anfuso, aveva mandato in dono all’eremita non pochi doni preziosi e, in seguito, pecore e buoi, che l’Uomo di Dio decisamente rifiutò in nome di quella povertà evangelica che aveva deciso di abbracciare fin dal primo momento in cui aveva fatto la sua scelta di vita. Poco tempo dopo Giovanni si recò dal conte Roberto per ottenere il libero possesso del luogo su cui sorgeva la “basilica”, ma non riuscì nell’intento auspicato. In seguito, accortosi nel corso di una sua grave malattia che il conte nutriva delle mire sui beni della congregazione e che attendeva la sua morte per attuare i propri piani, profondamente turbato nel suo animo, accettò l’offerta generosa di Odoaldo, signore di Foiano, e nell’anno 1153 si portò con tutti i suoi compagni alla chiesa di San Firmiano, nei pressi dell’abitato della stessa cittadina di Foiano, concessagli completamente franca. Anche qui comunque egli volle edificarsi una cella appartata, dove dimorò per qualche tempo. Sempre insoddisfatto e inquieto nella sua inesauribile sete di silenzio, si mise di nuovo alla ricerca di un luogo più solitario. Lo trovò nella parte più alta del territorio circostante: era un luogo isolato, ricco di legna e di acqua. Vi si trasferì subito con tre monaci e tre laici e, costruita una dimora, vi rimase con quel ristretto numero di seguaci per cinque anni, mentre gli altri restavano giù, a San Firmiano. Solo dopo che un furioso incendio distrusse completamente la chiesa di San Firmiano e i fabbricati annessi tutta la comunità si trasferì su all’eremo di Giovanni e cominciò a costruire lì un monastero. Era l’anno 1160, secondo le notizie che si ricavano dalla già ricordata Legenda. Il monastero pertanto sorse in una splendida posizione, in un angolo del grande bosco di Mazzocca, all’inizio della valle del Fortore, su un monte di 900 metri circa che avrebbe perpetuato nei secoli il nome di Giovanni da Tufara. E poiché il papa Adriano IV con una sua bolla del 14 aprile 1156, diretta all’eremita, aveva prescritto che i nuovi religiosi vivessero secondo la Regola di San Benedetto, il monastero venne in seguito considerato sempre come appartenente all’ordine benedettino. Qui, cioè nel monastero di Santa Maria del Gualdo in Mazzocca che egli fondò e resse in qualità di primo priore, l’eremita Giovanni il 14 novembre del 1170 rese la sua anima a Dio.
 
Il monastero di Santa Maria del Gualdo
La data di posa della prima pietra, secondo la notizia riportata nella Chronica di un ignoto monaco cistercense della Badia di Santa Maria di Ferraria in Terra di Lavoro, da collocarsi al 25 luglio del 1161. Il monastero ebbe nel corso della sua storia due stagioni importanti, prima della sua parabola discendente.
Dalla sua fondazione fino alla morte dell’ottavo priore (1269) il monastero fu retto da priori. Di questo periodo, oltre alla notevole acquisizione di beni che ne fanno un centro di ricchezza e di indiscussa influenza sia sociale sia politica, sono da registrarsi le seguenti importanti tappe:
  1. Novembre 1181: viene annessa alla giurisdizione del Gualdo il monastero di San Matteo de Sculcula, nel territorio di Capitanata.
  2. Nel 1187, Gregorio VIII autorizza il monastero a seppellire i defunti nella propria chiesa.
  3. Con il terzo priore, Giovanni (1197-1203), discepolo e seguace fin dalla prima ora dell’Eremita Giovanni, viene completato uno dei codici miniati, di pregevole fattura, che attualmente si trova nella Biblioteca Apostolica Vaticana, con l’indicazione Codice vaticano latino 5949, scritto dall’amanuense Eustasio e alluminato dal miniatore Sipontino.
  4. Sotto il settimo priore di nome Gentile, il 28 agosto 1221 si celebra la elevatio et translatio corporis dell’eremita Giovanni ad opera dei vescovi di Dragonara, Volturara e Montecorvino, delegati dall’arcivescovo di Benevento, Ruggiero. In questo rito molti storici han letto già una sorta di atto di canonizzazione.
La seconda fase inizia con l’elevazione del priorato alla dignità di Badia da parte di papa Bonifacio VIII sul finire del XIII secolo: il priore vide riconoscersi dal papa la dignità e il titolo di abate. Fino al 1381 gli abati risiedevano in loco, mentre dal secolo XV in poi l’abbazia veniva data in commenda ad abati non residenti, che ne prendevano solamente il titolo. Con buona probabilità potrebbe essere stata questa la vera causa dell’inizio della fine. Alcune date significative: 1)- nella notte del 4 dicembre 1456, tra le 23 e le 24 vi fu un terremoto: ne risultarono distrutte la chiesa, il campanile e tutta l’abitazione; 2)- ultimo abate commendatario fu Alfonso Carafa (nel 1505 vescovo di Sant’Agata dei Goti, nel 1512 vescovo di Lucera); 3)- agli inizi del secolo XVI il monastero versava in stato di completo abbandono. Il Carafa, ultimo abate commendatario, affidò il Gualdo ai Canonici Regolari del S. Salvatore dell’ordine di Sant’Agostino con sede in Bologna; 4)- la peste del 1656 affrettò la rovina del monastero che in questa data aveva perso la maggior parte di tutti i suoi beni. I beni rimasti furono amministrati dal convento si Sant’Agnello di Napoli; 5)- il sito andò in rovina. Ultimo atto fu la consacrazione della chiesetta rurale da parte del card. Orsini nell’anno 1716, di cui si conserva la lapide marmorea.
 
Il cammino verso gli altari
Fatte salve le indiscusse qualità spirituali dell’eremita di Tufara, per lungo tempo si è discusso se il culto nei suoi confronti fosse stato autorizzato a livello locale oppure se fosse a livello universale e, quindi, se fosse da attribuirgli il titolo di “beato” o di “santo”. A dirimere la secolare questione è stata la stessa Congregazione delle Cause dei Santi. Questa, dopo innumerevoli richieste pervenutele dalle diverse comunità ecclesiali della Valfortore e in seguito ad altrettanto numerosi incontri tenutisi in Vaticano con illustri studiosi ed esperti in Diritto Canonico (si ricordano in particolare le sessioni del 27 aprile, 7 e 20 maggio 2013), con nota prot. n. 7346/13 a firma del Cardinale Prefetto della medesima Congregazione Angelo Amato, comunicava all’Arcidiocesi di Benevento la tanto attesa notizia per la quale l’eremita Giovanni doveva, d’ora in avanti, essere invocato senza alcuna incertezza con il titolo di “santo”. A conferma di ciò il porporato vaticano scrive: <<Dopo aver appurato su base documentaria la vicenda storica, culminata nella elevatio e nella translatio corporis di Giovanni da Tufara, più noto come Giovanni Eremita, si deve ritenere che egli sia stato canonizzato secondo la procedura di iscrizione nell’albo dei santi allora (1221) in vigore, nota come “canonizzazione vescovile”>>.
Sulla base di tale pronunciamento del Dicastero Romano si può ritenere conclusa la secolare “diatriba” circa la reale e canonica santità dell’Eremita del Fortore che, seppur condotta in buona fede dalle popolazioni della Valle e comunque a dimostrazione sempre dell’affetto nutrito nei confronti del loro protettore, non di rado ha creato motivi di tensioni e polemiche storico-religiose dal sapore a volte quasi campanilistico. Ormai si può, anzi si deve ancora di più vedere in Giovanni un luminoso e fervido testimone della fede cristiana, oltre che un sicuro protettore delle genti che si affacciano sul Fortore.
 
Giuseppe Carozza
 
 

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