La Parrocchia San Pietro Apostolo ha recentemente ospitato il quarto incontro del ciclo “Vieni e Vedi”, svoltosi domenica 11 maggio presso l’Oratorio Santa Chiara. Il tema dell’incontro, intitolato “La famiglia, i giovani e la fede tra social e intelligenza artificiale”, ha suscitato un grande interesse tra i partecipanti, che hanno avuto l’opportunità di riflettere su tematiche molto attuali.
L’ospite d’onore dell’evento è stato il Dott. Tonino Cantelmi, psichiatra, psicoterapeuta e professore associato presso l’Istituto di Psicologia dell’Università Gregoriana. Con la sua esperienza, Cantelmi ha guidato i presenti in un’approfondita analisi dell’impatto dei social media e dell’intelligenza artificiale sulla vita familiare e giovanile, esplorando le sfide e le opportunità che queste nuove tecnologie pongono in relazione alla fede.
L’incontro ha rappresentato un momento di riflessione per la comunità, che ha potuto confrontarsi sulle difficoltà e le risorse che il digitale porta nella quotidianità, in particolare per le nuove generazioni. L’evento ha offerto preziosi spunti su come la fede e la spiritualità possano interagire con il mondo digitale, invitando a un uso consapevole delle tecnologie per favorire il benessere psicologico e relazionale.
Con questo incontro, la Parrocchia San Pietro Apostolo ha ulteriormente rafforzato il suo impegno nel promuovere un dialogo aperto e costruttivo sulle sfide della contemporaneità, restando sempre fedele ai valori cristiani che guidano la comunità.
Medico-Chirurgo, specializzato in Psichiatria, Psicoterapeuta
Siamo una generazione in estinzione: i predigitali. E allora viene da chiederci cosa dobbiamo consegnare alle generazioni che vengono. Qual è il nostro compito generazionale? È una responsabilità concreta e urgente, in un tempo in cui la tecnologia permea ogni aspetto della vita.
Ringraziamo Papa Francesco – e, per chi ci crede, anche i suoi predecessori come Papa Leone X – per aver posizionato la Chiesa dentro questa sfida epocale. Ma oggi la responsabilità è anche nostra, individuale e collettiva: cosa trasmettere ai giovani che stanno crescendo immersi in un mondo digitale?
Abbiamo appena concluso uno studio sulla Generazione Z, quella dei ragazzi tra gli 11 e i 17 anni, nati in piena epoca digitale e social. In collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, abbiamo esplorato non solo le difficoltà dei ragazzi, ma anche quelle dei genitori. E quello che emerge è un dato sorprendente: molti adulti fanno più fatica dei loro figli a gestire la tecnologia. I genitori spesso non riescono a consegnare un vero orientamento emotivo e valoriale, nonostante ne abbiano il ruolo.
I ragazzi, infatti, non hanno una grande opinione di noi adulti. In un sondaggio recente, due sono le principali preoccupazioni espresse: la prima riguarda proprio noi, i genitori. Troppi giovani ci vedono fragili, stanchi, preoccupati, pieni di problemi. La seconda è l’incertezza per il futuro, che oggi appare come una costante esistenziale. L’insicurezza è una forma di disagio profondo che mina la fiducia dei giovani nel domani.
Già prima della pandemia, due neuropsichiatri infantili pubblicarono un libro intitolato Le passioni tristi, descrivendo come emozioni come la paura, il dubbio, la disistima, stessero accompagnando con eccessiva forza la crescita dei giovani. Con il Covid, tutto questo si è aggravato.
Ma allora che cosa dobbiamo davvero trasmettere?
La buona notizia è che non dobbiamo aggiungere nulla: dentro ai nostri figli c’è già ciò che conta. Il nostro compito è fare in modo che ciò che di buono hanno dentro non si perda. Dobbiamo proteggerlo, coltivarlo, nutrirlo. Parliamo, per esempio, dell’empatia. Un video che racconta di una bambina che attende il ritorno del fratellino malato lo mostra in modo semplice ma potente: quando si rincontrano, lei gli offre il proprio cappello in cambio dei suoi capelli caduti per la malattia. Un gesto piccolo ma immenso, carico di comprensione, amore, connessione autentica.
Questo dobbiamo custodire: la capacità di sentire l’altro, di essere in relazione. Dobbiamo permettere ai nostri figli di essere sì digitali, capaci e competenti, ma anche profondamente umani. Perché l’empatia è l’antidoto alla crudeltà, e il seme che garantisce la continuità dell’umano anche in tempi dominati dai social e dall’intelligenza artificiale.
E c’è anche un altro compito: correggere, sì, ma con cura. Non con l’ira o l’impeto. Un cantautore ha spiegato la correzione come un gioco di Shanghai: bisogna togliere un bastoncino senza far crollare tutta la struttura. Così dobbiamo intervenire nei confronti dei nostri figli – togliere, suggerire, modificare con cautela, senza ferire, senza distruggere.
Oggi viviamo immersi in un mondo iperconnesso, dove i giovani ricevono più risposte dai social che dagli adulti. Hanno fiducia cieca negli algoritmi, nei suggerimenti digitali, nelle risposte automatiche. Ma quale responsabilità abbiamo noi adulti di fronte a questo? La risposta è chiara: dobbiamo diventare credibili testimoni, non competere con la quantità di informazioni, ma offrire profondità, empatia, esperienza vissuta.
Non potremo mai offrire più risposte di Google, ma possiamo offrire ciò che Google non potrà mai dare: uno sguardo umano, una presenza autentica, una relazione vera. L’umanità non è un algoritmo. È fatta di errori, di tempo, di imperfezione e di amore. Ed è proprio questo che dobbiamo trasmettere.
Grazie a tutti voi che avete ascoltato, riflettuto, condiviso. È solo stando insieme, anche fisicamente, anche in luoghi piccoli e semplici come questo, che possiamo restituire senso e umanità in un tempo che rischia di dimenticarli.